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L’eroismo di Luigi

Ci sono diverse forme di eroismo. Quella più nota, legata alla tradizione delle colline di Conegliano Valdobbiadene, si riferisce all’impervia coltivazione della vite su pendenze a volte superiori al 30%, tanto da venir definita, appunto, come “viticoltura eroica”. Ma c’è un altro tipo di eroismo, più profondo e umano. “Quando ero giovane, al mio paese di 250 anime, Premaor, frazione di Miane, nell’immediato dopoguerra quasi la metà della popolazione era costretta ad emigrare per mancanza di opportunità lavorative. Tanto che pure a me era venuto il pensiero di andarmene a lavorare in Germania, come stavano facendo tanti miei coetanei. Così mi ero confidato con un amico, che mi aveva detto: «Senti Luigi, se vai all’estero ti costruisci una posizione, ma se invece resti qui ti costruisci un futuro…”. Di fronte a questa scelta, non ho avuto dubbi: ho deciso nonostante tutto di rimanere”.

A raccontare questa forma di eroismo che nasce da un forte sentimento di legame con le proprie radici, tipico del mondo contadino, è Luigi Gregoletto, 92 anni, uno degli ultimi grandi “decani” della viticoltura del Conegliano Valdobbiadene. E non a caso, perché la famiglia Gregoletto lavora l’uva in queste terre da ben quattro secoli, come ricorda un documento datato 9 gennaio 1600, in cui un suo antenato stipula un contratto con l’Abbazia locale per la coltivazione di vigna e terreni, gli stessi che lavorano direttamente ancora oggi.

Nato nel 1927 a Premaor da una famiglia dedita alla mezzadria, il papà contadino e la mamma sarta, Luigi è uno di quei rari casi di un tutt’uno indissolubile con il territorio che lo ha generato. Ed è nello stesso tempo anche una delle poche voci in grado di raccontare la storia di queste terre durante il secolo scorso. Dall’indigenza al grande successo di questi anni. Perché se il Prosecco Superiore è diventato quello che è, lo deve ad uomini che hanno fatto le scelte di Luigi. Che sin da bambino ha vissuto in un ambiente dove la fatica e il duro lavoro erano la norma. “Ho iniziato a lavorare prestissimo, prima seguendo mio nonno su per le erte colline, dove possedevamo due ettari di vigneto, poi con mio papà. Si lavorava facendo tutto a mano, senza usare mezzi meccanici. Ho fatto tutti i lavori dell’attività mezzadrile, governare e mungere le bestie, arare e soprattutto occuparmi dei trattamenti su in collina. In cantina, poi, essendo io il più grande dei nipoti, mi mandavano a pulire l’interno delle botti, perché allora si vinificava direttamente sui tini”.

Luigi Gregoletto negli anni Quaranta

La vera scuola era la vigna, si imparava tutto sul campo. “A Premaor ho frequentato le elementari, ma solo fino alla terza. Quasi tutti quelli della mia classe, infatti, dopo la terza andavano già a lavorare. Io sono stato fortunato, perché mia madre capiva che studiare era importante e mi mandò a Follina a quella che ironicamente chiamavamo “università”, ovvero a frequentare la quarta e quinta elementare”. Tutti questi sforzi sono stati ricompensati da una vita di successi, dal premio come viticoltore dell’anno che gli venne conferito nel 2016 a Piacenza dalla FIVI, la Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti, ai riconoscimenti tributati ai suoi vini da personaggi come il gastronomo Luigi Veronelli e persino dal grande Alberto Sordi, che ospite a Conegliano nel 1991 citò durante un incontro col pubblico il “Gregoletto”, confondendo il marchio della cantina con un tipo particolare di vino. E tra gli estimatori degli ultimi anni c’è anche Bono, il leader degli U2.

Luigi Gregoletto premiato dalla FIVI.

Oggi, ad oltre novant’anni, Luigi Gregoletto continua a rimanere un punto di riferimento importante come memoria storica del territorio, ruolo che, comunque, gli rimane stretto, visto che fino ad un paio d’anni fa ha continuato a lavorare per l’azienda di famiglia, anche consegnando il vino ad alcuni clienti storici. Un’ennesima forma di eroismo, la più difficile, quella contro il tempo che avanza. “Cosa mi hanno lasciato mio nonno e mio padre? La grande passione per il lavoro ma soprattutto l’affetto per questa terra: se uno è innamorato della terra dove è nato, non ci sono posti migliori di questo. Ma è anche una grande responsabilità, perché fare il contadino è un’arte che non si impara da un giorno all’altro, per quante scuole si facciano”.

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Paolo Colombo

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